Viaggio nel Paradosso della Mixed Reality Pt. 2
Viaggio nel Paradosso della Mixed Reality Pt. 2
Bentornati nella nostra continua crisi esistenziale sulla Extended Reality. L’ultima volta abbiamo evocato Donald Norman, l’oracolo della UX, per ricordarci che un buon design dovrebbe essere invisibile. Ora parliamo invece di qualcosa che si rifiuta di esserlo: la semiotica—la scienza dei segni, dei simboli e della nostra collettiva confusione su cosa significhino davvero.
Norman ci ha insegnato che un buon design deve risultare intuitivo, ma la semiotica ci ricorda che l’“intuizione” è solo un comportamento appreso mascherato da buon senso. Se pensi che una porta vada spinta invece che tirata, non è perché sei nato sapendolo—è perché hai visto abbastanza porte da sviluppare un’aspettativa. Ora applica questa logica alle interfacce digitali. Per decenni ci siamo allenati a riconoscere icone e gesti, a fidarci che una lente d’ingrandimento significhi “cerca” e che tre linee implichino un “menu.” Ma cosa succede quando passiamo dagli schermi 2D agli ambienti 3D? Beh, le cose iniziano a farsi strane.
Prendiamo l’umile icona del salvataggio: un floppy disk che un’intera generazione non ha mai usato, eppure continua a cliccare istintivamente. Questa è la semiotica in azione: il segno (l’icona) si è completamente distaccato dal significato originario (l’oggetto), ma continuiamo a capirlo perché è sopravvissuto per pura inerzia digitale. Ora immagina lo stesso processo con la XR, ma applicato alle interazioni spaziali invece che alle metafore visive. Come si fa a “cliccare” su qualcosa quando non c’è uno schermo? Come si fa a “trascinare e rilasciare” a mezz’aria senza sembrare un mimo pessimo? Benvenuti nel problema delle interfacce in mixed reality.
Per capire dove stiamo andando, facciamo una rapida (e grossolanamente semplificata) deviazione nella storia dell’interazione uomo-macchina. Prima c’erano le interfacce a riga di comando, dove dovevi digitare istruzioni precise nel vuoto digitale e sperare di non cancellare accidentalmente l’intero hard disk. Poi sono arrivate le interfacce grafiche (GUI), con pulsanti, icone e finestre—praticamente le rotelle per principianti dei computer. I touchscreen hanno reso tutto ancora più naturale, perché il tocco e lo swipe imitavano gesti del mondo reale. Poi sono arrivati gli assistenti vocali, che hanno dimostrato che parlare ai propri dispositivi può essere tanto comodo quanto esasperante. E ora? Ora stiamo cercando di capire come interagire con oggetti digitali che fluttuano nello spazio 3D senza sembrare degli idioti.
Ogni grande cambiamento nel design delle interfacce ha richiesto un adattamento culturale, ma la sfida della XR è unica: ci impone di disimparare decenni di abitudini 2D, pur continuando a basarci su di esse. Le tastiere virtuali, ad esempio, sono ancora modellate su quelle fisiche, anche se digitare a mezz’aria è goffo quanto usare un touchscreen con i guanti da forno. Ci troviamo in una fase di transizione strana, in cui tutto nella XR sembra uscito da un’attrazione futuristica di un parco a tema—iperrealistico, ma non davvero funzionale. È la uncanny valley del design delle interazioni.
Il vero problema, però, non è solo far funzionare le interfacce XR, ma farle sembrare naturali. Nel design tradizionale, lo scheumorfismo (rendere gli oggetti digitali simili ai loro equivalenti fisici) ha aiutato le persone ad adattarsi alle nuove tecnologie. Le prime app per iPhone avevano texture in finta pelle, scaffali in legno e pulsanti lucidi perché sembravano familiari. Ma col tempo, siamo passati a design più astratti e minimalisti perché erano semplicemente più efficienti. Ora la XR si trova davanti allo stesso dilemma: continuiamo a cercare di replicare la fisica del mondo reale o abbracciamo la stranezza dello spazio digitale?
Ed è qui che le cose si complicano. Il mondo fisico ha delle regole: gravità, attrito, la fastidiosa mancanza di arti extra. Le interfacce digitali non hanno questi vincoli, ma ciò non significa che possiamo gettare gli utenti nel caos e sperare che capiscano da soli. Invece, dobbiamo sviluppare una nuova cultura del design delle interfacce, che riconosca la nostra dipendenza dai riferimenti familiari, permettendo però un’evoluzione graduale verso un linguaggio più nativo per la mixed reality. Proprio come il flat design ha sostituito le texture scheumorfiche inutili nelle interfacce 2D, la XR ha bisogno di una svolta che vada oltre la semplice imitazione degli oggetti fisici, verso qualcosa di realmente intuitivo per gli ambienti digitali.
Ogni salto tecnologico ci costringe a ripensare il nostro rapporto con gli strumenti che usiamo. La sfida della XR non è solo progettare interfacce migliori, ma ridefinire il nostro modo di percepire lo spazio digitale. E non è un’impresa da poco. Quindi, mentre navighiamo a tentoni in questo nuovo paradigma, poniamoci la domanda fondamentale: cosa ha senso per l’utente? È questa la chiave che dobbiamo continuare a cercare—prima di ritrovarci tutti a gesticolare nel vuoto come controllori di volo confusi.
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